D.L. “Liquidità” – Misure dirette a garantire la continuità aziendale delle imprese ed in materia di crisi d’impresa

factory-4130563_640
0

Accanto alle misure di sostegno alla liquidità delle imprese, introdotte dal Decreto legge n. 23 dell’8 aprile 2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 94 dell’ 8 aprile 2020, entrato in vigore il 9 aprile 2020 (“Decreto Liquidità”), il Governo, sempre nell’ottica di contenere gli effetti dannosi causati da COVID-19 sul nostro sistema produttivo, ha adottato ulteriori misure, di cui infra, dirette a garantire la continuità aziendale delle imprese, disapplicando (sino al 31/12/2020) alcune norme vigenti in materia societaria, ritenute, in questa fase, di ostacolo al perseguimento di tale obiettivo.

E’ intervenuto, inoltre, in materia di crisi di impresa, differendo l’entrata in vigore del Codice della Crisi di Impresa e dell’insolvenza, introducendo misure emergenziali dirette a salvaguardare, alla luce dell’attuale situazione emergenziale, le procedure concorsuali in corso alla data del 23 febbraio 2020 e prevedendo, infine, un sistema di blocco temporaneo della fase prefallimentare, con riferimento ai ricorsi depositati a partire dal 9 marzo 2020.

Eseguendo una sintetica panoramica sulle richiamate misure e rispettando l’ordine seguito nel provvedimento stesso, la prima disposizione su cui occorre soffermarsi è l’art. 5, rubricato “Differimento dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio  2019,  n. 14“, che, in unico comma, dispone il rinvio integrale dell’entrata in vigore del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155) alla data dell‘1 settembre 2021.

Come chiarito nella relazione illustrativa al Decreto Liquidità, la decisione di rinviare l’entrata in vigore del Codice della Crisi di Impresa – sollecitata da più parti – trova la propria fondata motivazione nella presa d’atto da parte dell’Esecutivo del rischio di mettere in campo strumenti non collaudati in un fase di estrema gravità, da un punto di vista economico – finanziario, per il nostro tessuto imprenditoriale, di cui ancora si sconosce l’esatta dimensione.

La nuova disciplina sulla crisi d’impresa – che si palesa rivoluzionaria (rispetto all’attuale legge fallimentare) nell’approccio, in quanto rivolta più al salvataggio delle imprese e della loro continuità piuttosto che alla liquidazione giudiziale – potrebbe non riuscire, infatti, in questo contesto emergenziale di asfissia finanziaria per le imprese, ad estrinsencare tutte le proprie potenzialità in ragione di un’evidente difficoltà a portare avanti processi di ristrutturazione aziendale in assenza di adeguate risorse finanziare e di prospettive di lunga portata.

Attraverso il differimento dell’entrata in vigore del Codice della Crisi d’impresa si concretizza  l’invocata posticipazione dell’operatività delle misure di allerta e dei connessi obblighi di segnalazione previsti dagli articoli 14 e 15 del Codice della crisi d’impresa, che, pur svolgendo una apprezzabile e condivisibile funzione di emersione tempestiva della crisi d’impresa, in una situazione di crisi economica così diffusa e generalizzata, potrebbero palesarsi inadeguati alla loro precipua funzione, rischiando di coinvolgere imprese in salute, seppur in temporanea difficoltà a causa delle conseguenze economico-finanziarie legate al diffondersi della pandemia COVID-19.

In sintesi, appare chiaro come  il Governo, al fine di consentire alle imprese di poter fronteggiare efficacemente le criticità cui andranno incontro nell’immediato futuro, abbia ritenuto meno problematico e penalizzante mantenere in vigore la consolidata, anche se non attuale, regolamentazione introdotta dal Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942 (c.d. legge fallimentare), piuttosto che affidarsi all’inesplorata disciplina di cui Codice della crisi d’impresa.

 

L’art. 6, rubricato “Disposizioni temporanee in materia di riduzione del capitale“, prevede, invece, la disapplicazione temporanea (sino al 31/12/2020) delle norme del codice civile in materia di riduzione del capitale sociale in presenza di perdite.

La previsione si occupa di disciplinare tale profilo nell’ambito delle società a responsabilità limitata, società per azioni e società cooperative.

Il fine precipuo è quello di neutralizzare, temporaneamente, gli effetti negativi che l’applicazione dell’attuale normativa vigente potrebbe avere sul nostro tessuto imprenditoriale.

In particolare, attraverso tale accorgimento si vuole evitare che gli amministratori, in presenza di perdita del capitale sociale, riconducibile verosimilmente agli effetti di COVID-19, concretizzatasi nell’esercizio chiuso al 31/12/2020, possano essere costretti – al fine di non incorrere nelle responsabilità derivanti dall’art. 2486 del codice civile –  a mettere immediatamente in liquidazione la società che, in condizioni normali, sarebbe performante, privandola così della prospettiva di continuità aziendale.

In tale ottica, la norma dispone, che, a decorrere dalla data del 9 aprile 2020 (data di entrata in vigore del Decreto Liquidità) e sino alla data del 31 dicembre 2020:

  1. per le fattispecie verificatesi nel corso degli esercizi chiusi entro la data del 31 dicembre 2020, non trovano applicazione gli obblighi di riduzione e/o aumento del capitale sociale previsti dal codice civile (artt. 2446, commi secondo e terzo,  2447,  2482-bis, commi quarto, quinto e sesto, e 2482 ter del codice  civile) in caso di riduzione del capitale per perdite in misura superiore al terzo e/o al di sotto del limite minimo previsto dalla legge;
  2. per lo stesso periodo (entro la data del 31 dicembre 2020), non operano le cause di scioglimento, di cui agli art. 2484, comma primo, n. 4 e 2585 duodecies del codice civile, e, dunque, non deve essere deliberata la messa in liquidazione delle società.

Approfondendo  le norme codicistiche interessate dall’intervento in questione, notiamo come gli artt. 2446, commi secondo e terzo, (per le s.p.a.) e 2482 bis commi quarto, quinto e sesto, (per le s.r.l.) del codice civile prevedano una specifica disciplina nel caso in cui le perdite subite dalla società abbiano determinato una riduzione del capitale sociale di oltre un terzo.

In tal caso, l’assemblea, convocata senza indugio dagli amministratori (o dal consiglio di gestione, nel solo caso delle s.p.a.), ha facoltà di rinviare ogni decisione sulla perdita subita all’esercizio successivo, riportando la perdita “a nuovo”. Qualora nell’esercizio successivo la perdita non si riduca a meno di un terzo del capitale sociale, l’assemblea ordinaria convocata per l’approvazione del bilancio sarà tenuta a deliberare la riduzione del capitale in proporzione alla perdita accertata od, in alternativa, adottare idonei provvedimenti come il ripianamento della perdita attraverso apporti di capitale (versamenti a fondo perduto da parte dei soci a copertura delle perdite) o, piuttosto, la trasformazione della società.

In mancanza di tale iniziativa da parte dell’organo assembleare, gli amministratori e/o sindaci dovranno chiedere al Tribunale che venga disposta  la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti dal bilancio. Il decreto adottato dal Tribunale, sentito il Pubblico Ministero, è reclamabile. È prevista anche la sua iscrizione al registro imprese a cura degli amministratori.

Gli artt. 2447 (per le s.p.a.) e l’art. 2482 ter (per le s.r.l.) del codice civile regolamentano, invece, l’ipotesi in cui le perdite subite dalla società nella misura di oltre un terzo abbiano provocato una riduzione del capitale sociale al disotto del minimo legale.

In tal caso, le norme codicistiche citate stabiliscono un obbligo a carico degli amministratori (o dal consiglio di gestione, nel solo caso delle s.p.a.) di convocare, senza indugio, l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale sociale ed il suo contemporaneo aumento sino ad un importo non inferiore al minino di legge od, in alternativa, la trasformazione della società.

Per quanto concerne, invece, l’approfondimento della fattispecie attenzionata al superiore paragrafo ii, si rammenta come gli artt. 2484, comma primo, n. 4 (in tema di s.p.a. e s.r.l.) e 2585 duodecies (in tema di società cooperative) del codice civile disciplinino le conseguenze della perdita totale, od al di sotto del minino legale, del capitale sociale, prevedendo che in tal caso, fatto salvo quanto previsto dagli art. 2447 e 2482 ter del codice civile, si verifichi una causa di scioglimento della società che ne determina la messa in liquidazione.

 

Con il medesimo spirito, è stato prevista, nell’art. 7, rubricato “Disposizioni temporanee sui principi di redazione del bilancio“, la possibilità – in sede di redazione del bilancio di esercizio in corso o con riferimento a quelli già chiusi alla data del 23 febbraio 2020, ma che non sono stati oggetto di approvazione da parte dell’assemblea – di eseguire una valutazione delle voci nella prospettiva della continuazione dell’attività secondo quanto previsto dall’art. 2423 bis, comma primo, n. 1 del codice civile.

Tale possibilità risulta, tuttavia, sottoposta ad una precisa condizione.

La continuità aziendale deve risultare sussistente nell’ultimo bilancio di esercizio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020.

Tuttavia, per garantire la massima informazione ai terzi, è imposto un obbligo, a carico degli amministratori, di fornire specifica illustrazione di tale criterio di valutazione nella nota integrativa. Ciò allo scopo di dare evidenza della sussistenza di (nuovi) fattori di criticità, connessi agli effetti provocati da COVID-19, che potrebbero incidere negativamente sulla continuazione dell’attività, pur se la redazione del bilancio continua ad essere eseguita sulla base di principi di continuità aziendale.

L’utilità di una simile disposizione, che si va a collocare nel più ampio perimetro di misure predisposte per garantire la continuità aziendale, è individuabile soprattutto nella creazione delle condizioni per facilitare ed accelerare l’approvazione del bilancio di esercizio, esonerando  gli amministratori dalla redazione di un bilancio sulla base di criteri di natura liquidatoria qualora, per motivi connessi alla diffusione di COVID-19, non risulterebbe possibile accertare la continuità aziendale facendo ricorso ai principi contabili normalmente applicabili.

 

L’art. 8 del Decreto Liquidità, rubricato “Disposizioni temporanee in materia di finanziamenti alle società“, introdotto anch’esso per agevolare l’immissione immediata di liquidità in favore delle imprese, interviene sugli artt. 2467 e 2497 quinquies del codice civile che regolamentano il principio di postergazione dei finanziamenti soci e dei finanziamenti infragruppo, disapplicandolo in relazione a finanziamenti effettuati sino alla data del 31 dicembre 2020.

Tale misura di carattere eccezionale mira ad garantire la sopravvivenza di realtà imprenditoriali produttive che, in questo momento, potrebbero necessitare di apporti finanziari da parte dei soci (art. 2467 c.c.) o della capogruppo (art. 2497 quinques del codice civile), incentivandone l’esecuzione  attraverso, appunto, l’esonero temporaneo dall’applicazione del richiamo principio della  postergazione.

L’art. 2467 del codice civile, nella versione vigente, disciplina la fattispecie del finanziamento dei soci nella s.r.l., prevedendo la postergazione del rimborso del finanziamento effettuato dal socio rispetto agli altri creditori, qualora, al momento della sua esecuzione, la società si trovava in una situazione eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto ovvero in una situazione finanziaria in relazione alla quale sarebbe stato ragionevole un conferimento anziché un finanziamento.

L’art. 2497 quinques del codice civile, in materia di direzione e coordinamento di società, sanziona, al pari dell’art. 2467 del codice civile, il fenomeno della c.d. sottocapitalizzazione delle società, prevedendo il medesimo trattamento per i finanziamenti effettuati in favore della società da parte di chi esercita direzione e coordinamento o da altri soggetti ad essa sottoposti.

 

Rimangono, in ultimo, da attenzionare gli artt. 9 e 10, che dettano, rispettivamente, disposizioni temporanee in materia di concordato preventivo ed accordi di ristrutturazione ed in materia di (pre) fallimento.

L’art. 9, rubricato “Disposizioni in materia di concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione“, si occupa di specifici profili riguardanti la gestione delle procedure di concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione pendenti  alla data del 23/2/2020 (con inclusione anche delle procedure già omologate ed in corso di esecuzione), introducendo una serie di misure di natura temporanea di “adattamento” all’attuale situazione di crisi del sistema economico provocata dalla pandemia.

Tali misure possono essere così, sinteticamente, illustrate:

(i) Il comma 1 prevede la proroga di sei mesi ex lege dei termini di adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione già omologati aventi scadenza nel periodo ricompreso tra il 23 febbraio 2020 ed il 31 dicembre 2021.

Tale previsione dovrebbe calmierare il cogente rischio  di diffusi inadempimenti, da parte dei debitori, agli impegni assunti in sede concordato preventivo o accordo di ristrutturazione già omologati, quale conseguenza degli effetti negativi provocati da COVID-19 e quindi incidere, soprattutto, sul meccanismo di risoluzione delle procedure di concordato ai sensi dell’art. 186 della legge fallimentare.

(ii) il comma 2 prevede, nell’ambito dei procedimenti per l’omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione pendenti alla data del 23 febbraio 2020, la possibilità per il debitore di presentare, sino all’udienza fissata per l’omologa, un’istanza diretta al Tribunale per ottenere la concessione di un termine non superiore a novanta giorni (che decorrerà dalla data del decreto di assegnazione del termine e sarà improrogabile) per il deposito di un nuovo piano e di una nuova proposta di concordato o di un nuovo accordo di ristrutturazione.

E’ così consentito al debitore di poter rivedere e quindi modificare le proprie assunzioni, oggetto della proposta e del piano, alla luce del mutato quadro economico e quindi operativo.

Il Tribunale, in esito alla ricezione dell’istanza, dovrà limitarsi a prendere atto della richiesta e concedere il chiesto differimento, assegnando un termine non superiore a novanta giorni.

Con riferimento alle procedure concordatarie, la norma esclude la possibilità di avvalersi di tale proroga per quei debitori la cui originaria proposta sia già stata sottoposta al voto dei creditori senza ottenere le maggioranze necessarie per l’approvazione.

(iii) il comma 3, consente al debitore – che intende modificare, esclusivamente, i termini di adempimento originariamente indicati nella proposta di concordato e nell’accordo di ristrutturazione – di depositare, sino all’udienza fissata per l’omologa, un’apposita istanza accompagnata da memoria contenente l’indicazione dei nuovi termini, unitamente alla documentazione che comprova la necessità della modifica dei termini.

Il differimento dei termini non può essere, in ogni caso, superiore a sei mesi rispetto alle scadenze originarie indicate.

Nel procedimento per omologazione del concordato preventivo il Tribunale, ricevuta tale istanza, acquisisce il parere del Commissario giudiziale e, riscontrata la sussistenza dei presupposti di cui agli articoli 180 o 182 bis della legge fallimentare, procede all’omologazione, dando espressamente atto delle nuove scadenze.

(iv) i commi 4 e 5 disciplinano l’ultima misura introdotta dal Decreto Liquidità che consente al debitore che ha depositato un ricorso cd. “prenotativo” o “in bianco” ai sensi dell’art. 161, comma sesto, e 182 bis, comma settimo della legge fallimentare, di poter ottenere una proroga, sino ad un massimo di novanta giorni, dell’automatic stay prevista per il preconcordato o per la proposta di accordo di ristrutturazione.

Tale facoltà è riconosciuta anche a quei debitori a cui sono già stati concessi i medesimi termini, e quest’ultimi sono in scadenza senza possibilità di ulteriori proroghe.

Tale proroga è applicabile anche in presenza di un ricorso per dichiarazione di fallimento.

E’ esclusa, invece, la proroga del termine di automatic stay per le istanze ex articolo 161, comma sesto e 182 bis comma settimo della legge fallimentare presentate a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Liquidità.

Il comma 4 chiarisce che, nelle procedure di concordato preventivo, l’istanza di proroga deve essere presentata prima della scadenza del termine di cui agli articoli 161, comma sesto, della legge fallimentare e deve indicare gli elementi che rendono necessaria la concessione della proroga con specifico riferimento ai fatti sopravvenuti per effetto dell’emergenza epidemiologica.

Il Tribunale, ai fini della concessione della proroga, acquisisce il parere del Commissario giudiziale, ove nominato, e valuta la sussistenza di concreti e giustificati motivi.

Per il resto trova applicazione la disciplina prevista dall’art. 161, comma settimo e ottavo, della legge fallimentare, come espressamente richiamato dalla norma.

Nel caso delle proposte di accordi di ristrutturazione, il Tribunale, in camera di consiglio,  omessi gli adempimenti procedurali previsti dall’articolo 182-bis, comma settimo, primo periodo, della legge fallimentare decide sulla concessione della proroga subordinandola alla verifica della:

(i)  sussistenza di concreti e giustificati motivi posti a sostegno dell’istanza di proroga;

(ii)  permanenza delle condizioni per giungere ad un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggioranze di cui all’articolo 182 bis, primo comma, legge fallimentare.

L’art. 10, infine, sancisce l’improcedibilità dei ricorsi, depositati nel periodo temprale ricompreso tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020, aventi ad oggetto:

(i) la dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 15 della legge fallimentare;

(ii) la dichiarazione di insolvenza anteriore alla liquidazione coatta amministrativa ai sensi dell’art. 195 legge fallimentare;

(iii) la dichiarazione di insolvenza anteriore alla amministrazione straordinaria ai sensi del D. Lgs. n. 270/1999.

Tale disposizione, come esplicitato nel comma secondo, non trova applicazione nei casi in cui il ricorso sia stato presentato dal Pubblico Ministero e vi sia richiesta di adozione dei provvedimenti di natura cautelare o conservativi di cui all’art. 15, comma ottavo, della legge fallimentare.

Il comma terzo dell’art. 10, in ultimo, si occupa di “calmierare” l’impatto (negativo) che il meccanismo di blocco di cui al comma primo potrebbe avere sulla posizione dei creditori dell’impresa.

Sancisce, infatti, che, “Quando alla dichiarazione di improcedibilità dei ricorsi presentati nel periodo di cui al comma 1 fa seguito la dichiarazione di fallimento, il periodo di cui al comma 1 non viene computato nei termini di cui agli articoli 10 e 69 bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267.”

Ne deriva che, in caso di dichiarazione di fallimento successiva alla dichiarazione di improcedibilità di cui al comma primo, il periodo ricompreso tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020 non verrà computato:

  1. a) ai fini del calcolo dell’anno decorrente dalla cancellazione dal registro delle imprese per la proposizione delle istanze di fallimento;
  2. b) ai fini del calcolo dei termini decadenziali stabiliti ai sensi dell’articolo 69 bis della legge fallimentare per la proposizione delle azioni revocatorie.

Avv. Francesco Bilotta